Dopo circa 2.800 miglia e 21 giorni di navigazione non-stop in mezzo all’oceano Atlantico, siamo finalmente approdate sane e salve a Martinica.
Non ho ancora realizzato il fatto di aver attraversato un oceano in barca a vela se non per il fatto di avere ancora una strana sensazione di mal di terra per la quale continuo a ondeggiare da ferma.
E’ stata una delle esperienze più incredibili e intense che io abbia mai vissuto
Appena approdata in Martinica la mia priorità è stata di bere tre litri di acqua fresca (il desalinizzatore a bordo trasformava l’acqua in un miscuglio di sali dal sapore imbevibile), farmi una doccia senza dovermi aggrappare per non cadere date le onde e la costante inclinazione della barca e una camminata di un ora e mezzo. Dopo settimane di meticolosa gestione di ogni tipo di risorsa che avevamo a bordo – dall’acqua, all’elettricità, al cibo, agli spazi – quella lingua di terra che man mano diventava sempre più visibile rappresentava per tutte noi un miraggio di “abbondanza” di risorse. Per noi metafora di tutto ciò che in queste settimane abbiamo processato, ovvero la limitatezza delle risorse che abbiamo disponibili sul pianeta è la stessa limitatezza che abbiamo vissuto a bordo.
La navigazione nell’oceano
Ogni tipo di risorsa che abbiamo avuto in barca è stata parsimoniosamente utilizzata o reindirizzata a nuova vita, dall’uso dei pannelli solari, alle piccole pale eoliche a poppa, a ogni tipo di packaging che è stato riutilizzato per altri scopi. Alla fine del viaggio abbiamo prodotto solamente due buste di immondizia e una di prodotti riciclabili (plastica e alluminio) in 14 persone. Non male come risultato ma si può sempre migliorare. Come vi potete immaginare non è stata proprio una passeggiata.
Tre settimane di continua navigazione a stretto contatto con acqua sotto e sopra, piogge monsoniche, onde come muraglie da tutte le direzioni, molti imprevisti, rotture di strumentazioni, evitate collisioni notturne con cargo, spazi angusti, venti fortissimi, orizzonti infiniti, stelle cadenti come meteore, pesci volanti sopra la barca, tanti tramonti, albe, arcobaleni e silenzio… Ma anche tanta plastica.
E’ stato impressionante navigare in zone apparentemente pulite lontane migliaia di miglia dalla presenza dell’uomo e trovare le conseguenze dei nostri comportamenti consumistici
Le microplastiche in mezzo all’oceano
I ricercatori, le definiscono come fibre di polimeri sintetici, frammenti o particelle granulari inferiori ai cinque millimetri di dimensioni. La microplastica raggiunge il mare e l’oceano direttamente come plastica di scarto o da abrasivi (sabbiature) e cosmetici (come le microsfere di polietilene usate negli scrub della pelle).
Ma anche i sacchetti e gli imballaggi, con le correnti, i vortici marini e la degradazione indotta dalla luce del sole, possono sminuzzarsi producendo minuscole parti. Due i principali danni da microplastica: il rilascio di sostanze tossiche dalle particelle di polistirene, stirene e uretano e l’interazione dei miniframmenti con i piccoli organismi marini, dal plancton in su.
Le microplastiche impattano pesantemente sul plancton e quindi, a cascata, sugli organismi marini
In particolare la balenottera comune, uno dei più grande filtratori al mondo di acqua marina, specie a rischio di estinzione, è contaminata in modo preoccupante dagli ftalati, i derivati più nocivi della plastica che hanno la capacità di interferire sulle capacità riproduttive.
A bordo con noi l’ultimo giorno in Martinica è venuta direttamente da Stoccolma Anna Karman, direttrice del progetto UN Safe Campaign, per spiegarci come le microplastiche possono generare inquinanti organici persistenti chiamati POPs (Persistent Organic Pollutants).
Dall’intervento di Anna Karman un dato in particolare mi ha sconcertata: l’Italia insieme a Stati Uniti, Israele e l’Iraq sono gli unici paesi al mondo a non aver firmato il trattato di Stoccolma per abolire i POPs dal commercio. I POPs si trovano in moltissimi prodotto come shampoo, creme, dentifrici, vestiti, giochi per bambini, cuscini, coperte, mobili, vernici, pentole. La cosa più allarmante è che questi POPs sono bioaccomulatori, ovvero una volta entrati in un organismo si accumulano senza avere la possibilità di essere eliminate, causando alterazioni al sistema endocrino, alterazioni durante la gravidanza, malattie cardiovascolari, tumori, obesità e diabete (qui trovate i risultati del Body Burden Analysis test, che individua i POPs bioaccumulati nel nostro corpo che abbiamo fatto con il laboratorio UN di Stoccolma). Altro dato impressionate: solo negli Stati Uniti ogni 5 secondi vengono usate 60.000 buste di plastica.
Fortunatamente non tutto è perso!
Alcuni dei seguenti progetti e tanti altri si stanno focalizzando su diversi livelli per sensibilizzare l’opinione pubblica, aziende e governi e trovare soluzioni concrete a questa problematica così complessa: The Ocean Cleanup, il coraggioso 19enne Boyan Slat sta studiano come “ripulire” gli oceani (ha raggiunto 2milioni di dollari con la sua campagna kickstarter); UN Safe Planet, nostri partner, studiano quali sono gli effetti delle mircoplastiche su animali e esseri umani incentivando governi e aziende a non usare più elementi tossici; Mediterranea focalizza la sua ricerca sulle microplastiche nel mediterraneo; Bio-On producono bioplastiche derivanti dalla fermentazione batterica di zucchero; 5gyres monitorano la presenza delle plastiche negli oceani.
What’s next?
Negli ultimi giorni a bordo di SeaDragon abbiamo messo insieme con tutte le ragazze idee, progetti e iniziative che da giorni erano nell’aria: da iniziative europee di monitoraggio e salvaguardia degli ambienti marini con l’EEA (European Environment Agency) della quale Constanca (a bordo con noi) è Project Manager del Marine Group, a una collaborazione con UNEP (United Nation Environment Program) con la quale Emily lavora a stretto contatto da anni, a iniziative di Beach Clean Up europee e strategie di CSR (Corporate Social Responsability) per varie aziende, alla realizzazione del primo database di open data sulla salute degli oceani incrociando dati sulla nostra salute con un occhio di riguardo all’aumento di alcune malattie derivanti dal consumo di pesce e altri alimenti.
L’8 marzo a Londra ci sarà la presentazione del nostro documentario realizzato da Jen, la filmaker canadese a bordo. Jen racconterà con le immagini il viaggio nell’oceano, dalle avversità alla convivenza di quattordici donne provenienti da tutto il mondo con background diversi, fino alla scoperta di uno dei problemi forse più lontani ai nostri occhi e meno conosciuto dall’opinione pubblica, ma che gioca un ruolo importante per la salute delle future generazioni e dell’intero pianeta.
CATERINA FALLENI
FORT-DE-FRANCE (MARTINIQUE), 9 DICEMBRE 2014